Torna il cinema operaio: Cortellesi, Riondino, Albanese

Quello che stiamo vivendo è un novembre caldo, ricco di film italiani che raccontano la storia e la vita di una classe operaia che non sappiamo se andrà in paradiso, ma di certo è all’inferno.

Una riscoperta importante. Dopo i decenni che hanno seguito il neorealismo, quelli in cui i grandi autori raccontavano grandi affreschi che si muovevano attorno a personaggi e vicende storiche e autori popolari storie private con ambientazione borghese e romana, il nostro cinema torna a raccontare piccole storie individuali e collettive, collettive e individuali. Per farlo ci sono voluti tre attori, che alla loro opera prima hanno avuto bisogno di una storia che sentivano.

I film sono tre: “C’ è ancora domani” di Paola Cortellesi (nelle sale da fine ottobre), Cento domeniche di Antonio Albanese (in uscita il 23 novembre) e Palazzina Laf di Michele Riondino (dal 30 novembre).

Credo ci stiamo trovando davanti a un momento importante della nostra cinematografica, e spero anche un atteso passaggio culturale, perché queste storie sono state spinte, non certo da produttori o addetti marketing ma dai loro autori. Credo, infatti, che Cortellesi, Albanese e Riondino abbiano sentito il proprio desiderio ma anche quella della società che sta loro intorno, nonché dal millieu dal quale provengono.

Cortellesi viene dalla periferia romana e al suo attivo varie commedie che trattano il tema della marginalità e della povertà (Come un gatto in tangenziale, Scusate se esisto, Gli ultimi saranno ultimi, Nessuno mi può giudicare), Albanese, figli di immigrati dal nord al sud, ha fatto il metalmeccanico in provincia, e Michele Riondino avrebbe potuto farsi una carriera da bono ma è figlio di un operaio dell’Ilva e da anni combatte per la sua Taranto.

Proviamo a mettere insieme i pezzi, uno alla volta. 

C’è ancora domani

Successo strepitoso al cinema, spero che sarà il candidato italiano per l’Oscar al film straniero, questo è il film più complesso da raccontare. Non è tanto la trama e neppure il timore di dire troppo, forse è il pudore. Perché questo è il racconto delle donne che conoscono la mancanza di libertà, il senso di solitudine, dovuto all’impossibilità di stare sole e sedute con sé stesse 

La storia è quella di una donna, che vive con un marito violento, i due figli maschi che gli assomigliano un po’ troppo e la figlia maggiore che LE assomiglia un po’ troppo. Delia ha con lei il rapporto più complicato e conflittuale, perché è l’unica persona che le parla e la sfida, però allo stesso piano.  La storia è quella del tentativo di liberarsi da una violenza che la tiene legata attraverso i figli ma anche attraverso l’impossibilità di un divorzio (siamo nell’Italia del 1945), di mantenersi per conto proprio o essere rispettata in caso di allontanamento. Una prigione. E come possiamo vedere, ancora, la sua storia, è una storia di una società intera e nello specifico quella delle donne.  

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Credo questo film vada visto e non raccontato e io non sono neppure tanto brava a farlo, l’unica cosa che vorrei sottolineare è la scelta di Cortellesi di non mostrare la violenza fisica anche per dare più risalto a quella che mostra, la violenza psicologica, quella economica del marito che costringe a consegnare i soldi guadagnati a lui e della società che dà per scontato che la donna guadagni meno di un uomo.  

Osservazione Extra: sto vedendo l’assenza di recensioni da parte di moltissimi uomini che scrivono e fanno video di cinema, da parte di molte persone che si spacciano per femministe e questo non parlarne è interessante. Gente che si spaccia per competente sul tema, e parla su QUALSIASI cosa, ma non è in grado di esprimere due parole su un film del genere. Ho letto commenti di uomini molto saccenti raccontare che è una storia lontana dall’oggi e non ha avuto alcun senso raccontarla, se non per imitare il neorealismo. Sarebbe bello pensare che questi soggetti non lavorassero nell’ambito della comunicazione e non parlassero di “sguardo sulla società” ogni tre per due, ma purtroppo non è così.

Stupenda Emanuela Fanelli. Mastrandrea sa farsi odiare come personaggio vuole 

Cento domeniche 

Parla di una truffa finanziaria fatta a un tornitore in prepensionamento, che si accorge di non avere più i suoi soldi quando cerca di prelevarli per pagare il matrimonio alla figlia. Sembra un uomo per bene (sembra, perché io non vedo i film in anteprima e lo guarderò quando uscirà in sala), che non ha letto le condizioni contrattuali della banca e i suoi risparmi sono spariti.  

Cento domeniche, Albanese

“Potevo essere io, e potevo trovarmi anch’io in questa situazione, ma non perché sono ingenuo o altro, ma perché mi fido degli altri. E così volevo rappresentare questa tragedia”

Dal trailer si vede come il dolore personale è anche dolore collettivo, dato che la banca in questione ha trattato nello stesso modo tante persone.  Ancora, dunque, vediamo il personale che è umano e sociale.  

Perché ho sottolineato prima la provenienza di classe dei registi/attori di cui stiamo parlando? Perché permette la concretezza, la realtà. Non c’è buonismo in Albanese, non c’è l’idea di un salvatore ricco che racconta la storia dei “poveracci”, lui racconta qualcosa che sa, e non è il suo ego a parlare ma, come spiega in diverse interviste, il suo bisogno di raccontare una storia che racconta nessuno e tornare a parlare di operai. Di nuovo, l’individuale (la storia del singolo) e il collettivo (la situazione operaia).  

Le sue parole chiave del progetto sembrano essere Rispetto e Verità. Dal modo in cui lo racconta sembraa esserno esserci.

Qui trovate un approfondimento interessante.

Palazzina Laf

E’ un altro film che arriva dal personale ma non è un racconto personale. Michele Riondino è nato in una famiglia di operai dell’Ilva.

Palazzina Laf

“Era mio destino, in quanto figlio di un operaio, prendere il suo posto e lavorare lì”, racconta. Sentite come arriva da lontano quel “potrei essere io” e come scava a fondo. Non è il contenuto narcisistico da social, è la vera empatia, è il voler dar voce a chi non ha le stesse possibilità di prendersi la propria storia.  Riondino ha già abbondantemente dimostrato di essere legato alla lotta contro l’inquinamento di Taranto e alla lotta per un lavoro sano e quest’opera è nel perfetto solco della sua storia. 

La Palazzina Laf era un reparto dell’Ilva in cui venivano mandati i lavoratori che la proprietà (Riondino nelle interviste usa con pertinenza il termine “il padrone”) voleva allontanare dall’azienda senza troppi problemi. La vicenda è vera e il neoregista ha studiato per anni le carte del processo per poter prendere questo piccolo tassello della storia dell’Ilva e della storia di Taranto e trasformarlo in un film. 

Senza aver potuto vedere il film la cosa più interessante è sentire Riondino e leggere le sue parole che non hanno mezze misure: “Con la Palazzina Laf per la prima volta si è usato il termine mobbing (e bossing), non esisteva, e si è parlato violenza privata, di suicidi, indiretti e diretti, di tortura, di monito per altri lavoratori), era una strategia della tensione, di una scatenata arrampicata sociale. Oggi importa farci delle domande all’interno delle aziende prima che entrino in crisi”.

E sentirlo ancora, anche in questa bella intervista.

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