Le parole dimenticate dell’umanità da “luce” a “futuro”

Parole e gesti dimenticati, parole che mancano, che abbiamo bisogno di sentirci dire che supportano gesti desueti.

Il progetto di Aida Aicha Bodian è proprio sulla riscoperta del tempo e dell’attenzione verso gli altri, un libro intitolato Le parole dell’umanità. Ogni termine ha una definizione, una splendida illustrazione, una riflessione più approfondita e la traduzione in 24 lingue. Fra le parole del volume ci sono: benvenuto, bellezza, luce, umiltà, empatia, e le mie preferite, provaci e ti ascolto.

Si tratta di un’autoproduzione che ha aperto un crowdfunding per pubblicare il libro.

L’ideatrice è Aida, 33enne appassionata di marketing e nuovi media, impegnata negli uffici di un brand i lusso della moda italiana. Attivista dei diritti dell’inclusione, italo-senegalese trapiantata a Parigi, sta cercando di trasformare le sue esperienze e la nostagia in un progetto che riporti a una maggiore attenzione verso l’altro.

Come è nato questo progetto?

Mi sono fermata a osservare le persone attorno a me, le loro azioni, le loro gesta, quello che facevo anch’io. Avevo bisogno di ascoltarmi e cosi ho fatto. Poi ho iniziato a scrivere alcune parole che mi mancavano.

Mi piace il concetto delle parole che mancano, perché ti mancavano e cosa ti ha spinto a fermarti ad osservare?

Mi piacciono le parole, mi piace scrivere e mi piace soprattutto ascoltare. Ho realizzato però che l’ascolto è uno delle pratiche più difficili da realizzare, siamo in una società in cui capita di entrare in ufficio e non ricevere neppure un saluto, di sedersi sull’autobus e non trovare lo sguardo di nessuno, di vedere la gente immersa in una vita sempre più frenetica e così ho avuto la necessità di fermarmi e pensare a queste parole che mi sono state insegnate da bambina ma anche in me sono andate perse.

Il libro prende spunto anche da Il piccolo principe e dai concetti che impariamo da bambini e che piano piano dimentichiamo. Mi viene in mente, quelle volte in cui, da piccola salutavo pima in modo naturale sempre  con un sorriso pronto, poi pian piano in modo più forzato senza capire come la gente poteva passarti accanto senza nemmeno alzare lo sguardo e infine abituandomi pure io a quello che era la normalità ma che in realtà normalità non è.

Così hai scritto su un foglio le parole che ti mancavano. E il progetto come è proseguito?

Visti i miei interessi ho pensato subito all’idea della traduzione nei dialetti italiani ma il dialetto era difficile da rendere in modo scritto e allora ho pensato di chiedere ai vari amici di The diversity net (un progetto sulla divesità e integrazione) di tradurre le parole in tante lingue. Poi ho coinvolto anche l’amico Nicola Grotto per le illustrazioni e le quattro ragazze di Le Maus per il progetto grafico. Mi piace poter coinvolgere più persone e anche per questo è nata la raccolta fondi.

Hai vissuto e vivi varie culture, ci sono parole che mancano più in una che nell’altra? 

C’è una parola che mi manca molto. E’ un termine del dialetto della mia comunità del Senegal: baraka. E’ una parola che non è facile tradurre ma è una sorta di ringraziamento però non un semplice grazie ma un richiamo all’essere grati per tutto quello che riceviamo ogni giorno, a tutto quello che riceviamo nella vita.