Mi succede una cosa strana con Vitaliano Trevisan.
Quando leggo un suo libro la vita raccontata si intreccia inevitabilmente con la mia e qualunque cosa accada la associo con la lettura in corso. Sono cose che capitano con i grandi.
Ovviamente c’è una ragione; i suoi libri (almeno quelli che ho letto: Works, Il ponte, I quindicimila passi) sono tutti scritti in prima persona. Ma non basterebbe, il punto è che lui riesce veramente a far entrare il lettore nella sua testa (pardon, la mente dei suoi personaggi) e a renderteli sodali, lontanissimi, ma vicini, come quegli amici “difficili” che però accetti perché è così che fai nella vita.
Per dire, per chi ha letto le sue opere il Giornale di Vicenza (che non ho mai visto) è diventato quasi mitologico e nella mia mente tappezzato solo di annunci di lavoro, necrologi, incidenti e ovviamente suicidi per impiccagione. Perché lui ha deciso che deve essere così!
Complice di tutto ciò è stato il primo di libro di Trevisan che io abbia mai letto, Works, un capolavoro. Ha raccontato in prima persona la sua vita attraverso i lavori che ha vissuto; sono stati moltissimi, dal geometra allo spacciatore, fino al portiere di notte.
Dall’incipit, che è anche l’inizio della sua discesa lavorativa si capisce già chi si ha di fronte:
“A un certo punto non ne potei più. Ero stanco di arrancare sui pedali per non essere lasciato indietro, sapendo benissimo che comunque, malgrado tutti gli sforzi, sarei rimasto inesorabilmente indietro. Perfino in discesa venivo lasciato indietro. E il problema non ero io, ma quella stupida bicicletta da donna
Vuoi iscriverti al mio canale Telegram?
E lo stile! Il modo in cui disseziona i pensieri reali della società, i giudizi! Non c’è nessuna ipocrisia nel descrivere quello che è il vero lavoro, e l’economia italiana, le prossioni per accettare un lavoro e portarlo avanti mettendo quell’accettazione di dover soffrire al primo posto, così tipica dell’Italia e “nel nord-est nel suo specifico”. Verista, poetico e mai noioso con parole contro l’élite italiana che ancora oggi crede (così scrive) che gli operai siano uomini in tuta blu mentre invece sono spesso ragazzi molto giovani che tengono tantissimo al look e all’aspetto fisico.
Ne I quindicimila passi il “quasi monologo” è quello di Thomas, che ha vissuto lontano al limite del mondo e concettualmente sul bordo della strada dove finiscono cadaveri di animali e spazzatura. Un capolavoro che cerca di descrivere i meccanismi della sottomissione psicologica e della follia partendo dalle riflessioni di un uomo che si sta recando dal notaio. Il racconto intreccia anche altre storie con dei momenti divertenti, come lo è spesso la realtà quando la si guarda in modo disincantato da vicino, come la guerra fra le due “vecchiarde” per una famosa “casa incompiuta”. Memorabile!
Ne Il ponte lo sguardo è orientato ancora una volta al passato, ma anche in un presente silenzioso intervallato solo da discorsi fatti a un amico tedesco sull’Italia lontana e sul futuro prossimo: tornare in Italia per dare l’ultimo saluto al cugino ormai seppellito? Passare dalla madre? Si scoprirà poi che in Italia in realtà aveva lasciato altro, forse l’unico lontano ricordo di un vero amore e il senso di colpa.
“Così, in quei dieci anni, leggendo tutti i giorni la pagina dei morti del Giornale di Vicenza avevo aggiornato la partita doppia della vita e della morte, che ogni essere umano aggiorna vivendo, anzi sopravvivendo. Parenti, amici, vecchi compagni di scuola, conoscenti, un po’ alla volta le persone se ne vanno, e con loro se ne va quella parte di noi che ognuno di essi conserva in memoria.